Impatto ambientale delle coltivazioni transgeniche: i dati scientifici

Prof. Manuela Giovannetti Ordinario di Microbiologia Agraria Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali, Università di Pisa

Le biotecnologie e l’ingegneria genetica sono alla base della nostra vita di tutti i giorni: ci forniscono cibi e bevande come pane, formaggio, birra, vino, yogurt, antibiotici e cortisone, e medicine come insulina, interferone e molte altre sostanze fondamentali per la nostra salute. Sono convinta che le biotecnologie siano uno dei settori più importanti per lo sviluppo della società e dell’economia della conoscenza, in Italia e in Europa. Tuttavia, da microbiologa e biotecnologa, nutro alcuni dubbi relativi alla coltivazione in pieno campo delle piante transgeniche (o geneticamente modificate, GM), basati sulle numerose evidenze scientifiche pubblicate sulle più influenti riviste internazionali.

Il primo dubbio riguarda la resistenza agli erbicidi usati per combattere le malerbe. Circa l’83% delle colture GM nel mondo è rappresentato da piante capaci di tollerare gli erbicidi, il cui uso è aumentato in misura consistente: per esempio, di 239 milioni di chili negli USA tra il 1996 e il 2011. Tale aumento è da ascriversi al fatto che le grandi compagnie biotecnologiche che hanno brevettato la modificazione genetica, sono spesso multinazionali agrochimiche e sementiere, in grado di produrre e vendere non solo i semi transgenici ma anche i relativi erbicidi da somministrare alle colture GM resistenti agli erbicidi stessi. E’ stata recentemente riportata l’insorgenza di piante infestanti resistenti a uno degli erbicidi più utilizzati, il glifosato, causata dall’intensa pressione selettiva a cui sono sottoposte le piante infestanti attraverso i trattamenti ripetuti con l’erbicida, anche durante il periodo di crescita delle colture GM. In particolare, negli USA una specie di amaranto (Amaranthus palmeri) resistente al glifosato si è diffusa molto rapidamente dal 2005 a oggi e pone seri problemi economici alla produzione del cotone. E’ evidente che le piante infestanti diventate resistenti agli erbicidi, che potremo definire superinfestanti, causano danni economici non solo agli agricoltori che hanno scelto di coltivare piante GM, ma a tutti gli agricoltori, perché rendono inefficaci gli erbicidi usati finora per distruggerle.

Il secondo dubbio riguarda lo sviluppo della resistenza alla tossina insetticida Bt da parte degli insetti nocivi. Questa tossina rappresenta il prodotto dell’attività di un gene di un batterio del suolo, Bacillus thuringensis (dalle cui iniziali deriva il nome Bt), un microrganismo bioinsetticida naturale attivo contro le larve di alcuni insetti nocivi. Il gene Bt è stato clonato e trasferito in alcune piante come mais e cotone, che sono diventate capaci di produrre la tossina insetticida: in questo modo quando le larve parassite provano a cibarsi delle piante Bt, muoiono. La tossina Bt è presente in tutti i tessuti della pianta GM – foglie, radici, fusto – e le grandi quantità che raggiungono il suolo (da 0,1 a 4,2 Kg per ettaro) esercitano una forte pressione selettiva sugli insetti nocivi, che si traduce nell’insorgenza di resistenza alla tossina stessa da parte degli individui capaci di tollerarla (resistenti), che diventano così gli unici capaci di sopravvivere e trasmettere questa loro proprietà alle generazioni successive. La strategia messa a punto e consigliata dalle compagnie produttrici di piante GM per ritardare nel tempo tale fenomeno è rappresentata dall’adozione di zone rifugio, coltivate con varietà di mais o cotone non Bt, che devono rappresentare almeno il 20% dell’area totale coltivata a piante Bt. Nonostante le raccomandazioni delle industrie sementiere biotecnologiche ad adottare le zone rifugio, la resistenza alle tossine si è sviluppata: la rivista Nature Biotechnology ha riportato che, se nel 2005 esisteva solo una specie di insetti resistenti alle tossine Bt, oggi ce ne sono ben cinque. Così le colture Bt finiscono per selezionare, invece di sterminare, insetti nocivi resistenti alle tossine Bt. Come nel caso dell’insorgenza di piante resistenti agli erbicidi, i danni economici ricadono anche sugli agricoltori che non coltivano piante GM o addirittura che praticano agricoltura biologica, dove il batterio Bacillus thuringensis viene usato, in modo contenuto e mirato, per proteggere le colture. Una delle cause della rapida diffusione della resistenza alla tossina Bt da parte degli insetti nocivi è probabilmente la difficoltà di adozione delle distanze di sicurezza e delle zone rifugio, che sarebbe estrema nel nostro paese, data la ridotta dimensione delle aziende agricole italiane. Nel caso in cui si dovesse ammettere la possibilità di coltivazione del mais Bt in Italia – perché di questo si tratta, essendo gli altri tre tipi di piante GM attualmente commercializzati, cotone, soia e colza, poco rappresentative della realtà agricola italiana – il problema non sarebbe solo quello di un’adeguata regolamentazione da parte delle regioni e dello stato, ma soprattutto quello del rispetto delle regole. Infine, è il caso di sottolineare che la tossina Bt è attiva contro alcuni tipi particolari di insetti, come la piralide, e non su tutti gli insetti nocivi, per cui gli insetticidi sono utilizzati comunque in presenza di un attacco di larve diverse da quelle bersaglio della tossina.

Una recente pubblicazione (Turrini, Sbrana, Giovannetti 2015. Belowground environmental effects of transgenic crops: a soil microbial perspective. Research in Microbiology, 166:121-131) ha fatto il punto sulle evidenze scientifiche riguardanti l’impatto delle piante GM sui microrganismi benefici del suolo, sottolineando che il grande numero di dati sperimentali disponibili conferma la validità di un approccio precauzionale, che tenga conto dei rischi associati non solo alle tecnologie utilizzate per ottenere le piante GM, ma anche alla natura dei transgeni inseriti nelle piante, ai loro effetti pleiotropici e al loro destino negli agroecosistemi. In realtà i benefici delle coltivazioni GM per gli agricoltori, le industrie agrochimiche, le compagnie agrobiotecnologiche e i consumatori dovrebbero essere confrontati con i costi per la società relativi ai loro effetti a lungo termine sulla salute e fertilità dei suoli e sulla sostenibilità degli agroecosistemi. E’ innegabile infatti che le colture GM finora sviluppate, del tutto simili alle varietà selezionate per l’agricoltura intensiva industriale degli ultimi 60 anni, richiedano alti inputs energetici in termini di fertilizzanti di sintesi e biocidi, e pongano gli stessi problemi relativi alla contaminazione delle acque e dei suoli, alla perdita di biodiversità e alla qualità del cibo.

Un ultimo aspetto che vorrei discutere riguarda il problema della fame nel mondo. E’ importante sottolineare che le attuali piante GM – mais, cotone, soia e colza – sono colture industriali e non sono state create per i popoli che soffrono la fame. Cotone e colza non sono piante alimentari (dal cotone si ricavano tessuti, dalla colza un olio industriale), mentre soia e mais sono utilizzate principalmente per produrre mangimi animali e quindi carne, latte e formaggi, che certamente non sono destinati ai mercati dei paesi poveri e affamati. Non escludo che nel futuro possano essere sviluppate piante transgeniche altamente produttive, resistenti alle più diverse malattie, a siccità, salinità e alte temperature, ma per adesso queste colture non esistono. E comunque, se fossero sviluppate, perché le popolazioni povere e affamate ne potessero trarre giovamento, i loro semi non dovrebbero essere sottoposti a brevetto, e ai costi aggiuntivi relativi, e non dovrebbero comportare l’uso massiccio di fertilizzanti chimici ed erbicidi, i cui costi sono proibitivi per l’agricoltura africana.

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Impatto ambientale delle Coltivazioni transgeniche: i dati scientifici – Prof. Manuela Giovannetti

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